“La Sicilia è oggi in una situazione molto complicata e disperata – è una regione che ha problemi da terzo mondo e si trova a convivere con il primo. Gode, per modo di dire, un progresso superficiale e accessorio; e soffre insieme gli antichi e nuovi mali. I rapporti col mondo della tecnologia e dei consumi in Sicilia si realizzano al livello del superfluo, mentre ancora è da risolvere il problema del necessario”. Ad oltre vent’anni dalla sua morte, in estrema sintesi, questa citazione di Sciascia racchiude ancora il concetto della sicilitudine che il grande maestro di Racalmuto inventò per descrivere tutto quanto avviene (o non avviene) in questa nostra isola. La normalità, le virtù, le tradizioni, la vita e la morte, insomma tutto quanto ha a che fare la Sicilia. Un denominatore comune, un specie di input con il quale ogni cosa può essere spiegata anche in assenza della più semplice delle spiegazioni.
Spesso lo scrittore, nelle sue conversazioni private, amava ripetere alcuni proverbi siciliani, tra i quali il famoso “cu nesci arrinesci”, perché noi siciliani siamo sempre stati bravi a dare una spiegazione a tutto, come una sorta di destino che questa terra si porta da sempre e quindi se qualcuno vuol fare qualcosa è meglio che si prepari la valigia. Una strana situazione, la nostra. Ci sentiamo fieri quando gli altri esaltano la maestosità della Valle dei Templi e al contempo rimaniamo rassegnati a soffrire disoccupazione, povertà, degrado ambientale.
Amiamo sfrecciare con macchine lussuose su strade dissestate, abitiamo appartamenti da sogno pieni di confort, stile emirati arabi, e tralasciamo con tranquilla noncuranza una semplice tinteggiatura del prospetto esterno, tanto chi ci vede sdraiati a guardare la tv nel nostro salotto di pelle? Quasi compatiamo gli abitanti di Milano che dormono, in affitto, in case di quaranta metri quadri, dimenticando che da quelle parti i nostri ragazzi sono costretti ad adattarsi in un posto letto con bagno e cucina da divedere con altri a 3/400 euro al mese.
La storia dell’esodo biblico all’inizio dell’era industriale, fine ottocento, ci racconta di quasi un milione e mezzo di siciliani che hanno tentato la sorte oltre oceano per scoprire una possibilità di vita umana al di fuori della terra più bella dei mortali. Si chiedeva Sciascia di chi la colpa! Una regione che fa parte dello stato che occupa la settima posizione mondiale e che vive in larghe sacche del suo territorio a livelli inferiori agli stati del terzo mondo. Una maledizione? I benpensanti dicono che ognuno ha quel che si merita, i politici, soprattutto i “mischini nostrani”, dicono che la riscossa verrà ma il loro sguardo è rivolto sempre in direzione nord alla faccia di uno Statuto rato e mai consumato. Garibaldi non fu mandato solo per cacciare i Borboni ma principalmente, su ordine di Cavour, per sequestrare i beni della Chiesa e rubare l’oro del Banco di Sicilia, del valore di 25 milioni di allora per pagarsi a nostre spese le “sue” fallimentari guerre d’indipendenza, facendo leva sui nostri eroici ma ignari picciotti. Il siciliano e ascaro presidente del consiglio Francesco Crispi, nativo di Ribera, anche lui sbarcato a Marsala, non esitò un istante a reprimere nel sangue i fasci siciliani per farsi amare dallo stato sabaudo. Si dice che l’allora re piemontese Umberto I° abbia detto: Crispi è un porco, ma un porco necessario!
Sciascia naturalmente questo lo sapeva e aveva contezza della mafia che ha sempre capito l’assenza dello Stato. Molto tempo dopo aver mandato alle stampe “Il giorno della civetta” confessò di aver impiegato quasi un anno per cercare di limare parola per parola il primo romanzo italiano che si occupava apertamente di mafia. E coraggiosamente lo pubblicò.
Se davvero questa terra vorrà cambiare, dovrà scrollarsi di dosso il pensiero che prima o poi qualcuno verrà a salvarci, perché al momento buono ci lascerà alla nostra atavica disperazione.