Giuseppe Maurizio Piscopo
Marco Pomar è uno scrittore, blogger, autore teatrale, umorista.
Fino ai suoi 40 anni poco si sa di lui, dopo, con l’avvento del blog e social è difficile da evitare. Esordisce nel 2010 con il libro “Un’estate a Palermo”, edito da De Lorenzo, romanzo collettivo scritto insieme ad altri sette autori. Il suo primo libro esce da solo, la raccolta di racconti “ La memoteca”, edizioni Novantacento, esce nel 2012. Con le edizioni Leima partecipa alla raccolta collettiva “Certe strade semideserte” nel 2013, poi “Cronaca Dannata”, sempre nel 2013, e “C’è tempo” nel 2015.
Nel 2016 scrive per il teatro, per diversi attori brillanti, e minaccia di continuare.
Quando hai scoperto il piacere di scrivere?
Mah, ti dirò. Il piacere di scrivere è antico, e cammina insieme al piacere di leggere. Solo che da giovane si scrive per un’esigenza interiore, si riempiono pagine e pagine di diari che nessuno leggerà mai. Andando avanti negli anni o abbandoni questa funzione catartica della scrittura, o impari a canalizzarla, darle un senso, una forma. In fondo gli strumenti per scrivere li abbiamo tutti, è come avere a disposizione grossi quantitativi di pietra grezza: la maggior parte di noi non saprebbe che farne, uno scultore toglie il superfluo e crea nuove figure.
Comunque la mia scrittura codificata, con un pubblico minimo necessario per definirsi scrittore, è relativamente recente, diciamo da una quindicina di anni.
Che ricordo hai di te bambino alle elementari?
Bello e complicato nello stesso tempo. Ho pagato in qualche modo il fatto di essere stato un anno avanti, quindi più piccolo delle classi nelle quali militavo.
A volte per questo venivo coccolato, altre deriso, come solo i bambini sanno fare. Poi resta qualche flash, immagini e ricordi confusi di bambini ora magari diventati assessori, magistrati, eroinomani o rappresentanti di materiali edili. E il destino toccato a loro non è mai quello che avresti immaginato.
Nella scrittura hai uno stile unico al mondo: giochi di parole, paradossi e tanta ironia. Dove vuoi arrivare con le tue belle storie a chi ti rivolgi esattamente…
A gloria imperitura, ovviamente.
Scherzi a parte, scrivere è un ottimo sistema per non morire. Anche se Woody Allen ha dichiarato: “Non voglio raggiungere l’immortalità con le mie opere, preferisco raggiungerla non morendo!”
Quando scrivo non ho idea del mio potenziale pubblico di riferimento. O meglio, spero che lo possa essere chiunque, che il linguaggio dell’ironia possa in qualche modo trasmettere anche messaggi, veicolare contenuti densi di significato, ma che ti arrivano con un sorriso. Se pensiamo ai grandi comici della storia, nel cinema come nella letteratura, c’è spesso un significato nella loro opera, accompagnato a volte da un tocco di amarezza.
Cosa è più facile: far piangere o far ridere?
Provo a rendere chiaro il concetto, o meglio quello che penso in merito a questa domanda, in poche righe: ti racconto la storia di un bambino di undici anni, che ha perso il padre e vive in povertà con la madre. Il suo unico vero amico è un piccolo cane trovatello, sporco e peloso, di nome Gimmi, che vive davanti alla loro casa. La mamma non vuole che lui lo prenda, perché non hanno soldi e possibilità di nutrirlo e curarlo per bene. Il bimbo ogni sera nasconde parte del suo cibo sotto il tavolo, e di notte scende per strada per darlo a Gimmi. Il quale però è malato, e destinato a morire in pochi mesi.
Non vado avanti, ma la commozione, in una storia dove magari posso inserire un autobus che investe Gimmi, il cane che prima di morire lecca la mano del bambino, è di facile ottenimento.
Questo è il pensiero lineare, il raggiungimento dello scopo è abbastanza semplice.
Per farti ridere con la stessa storia, devo inventare un cane che parla solo con il bambino, che insieme decidono di truffare gli abitanti del quartiere organizzando una colletta per il cane malato, convincendo una vecchia signora a lasciare tutti i suoi averi a Gimmi, che in pochi mesi diventa il cane più ricco della città e si candida a sindaco.
Ovviamente il tutto sconfinando nel paradossale e nell’assurdo, creando situazioni estreme, con effetti comici.
Questo è il pensiero contorto, dove la realtà viene deformata dalla lente del ridicolo, dove occorre pensare a una deviazione dalla strada normale della quotidianità.
Spero di essere stato chiaro. Anche se la storia di Gimmi non faceva ridere tanto, ma il concetto dovrebbe essere arrivato.
I toscani sanno ridere dei propri difetti lo rileviamo dal loro carattere e dai film di Mario Monicelli “Amici miei”. I palermitani invece, non festeggiano il carnevale come te lo spieghi? Eppure fanno sempre teatro, sul 101, al pronto soccorso, in ospedale, al bar, per la strada, quando litigano per un posteggio, quando guidano alla palermitana, con uso e abuso del “codice della strada”?
Perché il palermitano ha in sé, storicamente e come il napoletano, l’istinto teatrale, la voglia di trovare il lato comico di ogni cosa, eppure sembra averlo perso per strada. Il carnevale non ha mai avuto una grande presa, perché da noi la comicità, la risata, raramente proviene, come appunto per i toscani, dagli scherzi, dalle zingarate. Non c’è la tradizione, e si è persa, insieme alla risata, anche la voglia di sorridere al prossimo, che è la cosa che più mi amareggia.
I bambini si che sanno ridere mi disse un giorno il grande mattatore Vittorio Gassman al Teatro “La Pergola” di Firenze mentre ero in compagnia di Tuccio Musumeci con lo spettacolo “Pipino il breve”. Gassman sapendo che facevo il difficile mestiere di Maestro mi disse, ricordati:- per capire se uno spettacolo funziona veramente prima bisogna proporlo ai bambini. Sei d’accordo con questa affermazione?
E chi sono io per contraddire il grande Gassman? Si, sono d’accordo, anche se la faccenda è un pochino più complicata. L’umorismo ha diverse chiavi di lettura, alcune più immediate, altre di secondo livello, per così dire. Il bambino sa riconoscere, per istinto, la comicità pura, quella di Charlie Chaplin e Buster Keaton. Mentre la satira, il paradosso, il non sense, necessitano di strumenti di conoscenza superiori. Non per una questione di intelligenza, ovviamente, ma di esperienza di vita.
C’è un tempo per ogni cosa è scritto nella Bibbia. Che cos’è per te il tempo?
Un grande e meraviglioso contenitore dove noi mettiamo quello che vogliamo, e che possiamo: l’amore, la famiglia, i film di Totò, i libri di Achille Campanile, i tramonti estivi, il sorriso di una donna, il polpettone della nonna ma senza pistacchi, un tuffo dove l’acqua è più blu.
Ma tanto il tempo non esiste, è un grande farabutto che ci prende tutti in giro, ma alla fine vince sempre lui.
Che cosa è diventata l’ironia ai tempi di internet?
Io non sono necessariamente critico sull’abbondanza della diffusione di umoristi e battutisti dell’ultima ora. Certo, la sovrabbondanza di materiale spesso scadente rischia di nascondere quelli bravi davvero, talenti che vengono fuori sui social e sui blog. Ma, avendo io un debito di riconoscenza nei confronti dei blog e dei social network, sono l’ultimo che ne possa parlare male.
L’ironia è una forma altissima di linguaggio, è, dirò di più, una chiave di lettura del mondo. Che ci aiuta a capire molte cose, o, a non capirle ma a saperle prendere in giro.
Una risata vi seppellirà oppure ci diseppellirà?
No, una risata ci toglierà di dosso decenni di pesantezza, ci farà rivivere guardando le cose con una leggerezza che non siamo in grado di sopportare, ma che allenterebbe moltissimo la tensione sociale. Se ci fai caso è rarissimo vedere un politico sorridere di un sorriso vero, non quelli buoni per i manifesti. Perché la politica è il contrario dell’ironia, e infatti non la sopporta e la combatte.
Cosa intendeva dire Beatrice Monroy durante la presentazione a Villa Filippina del tuo splendido libro :”Memoteca” quando ha detto di te: Marco è l’uomo che ha un sorriso un pò di traverso, che guarda la vita con stupore?
Beatrice è la mia maestra di scrittura, e può dire di me quello che vuole. Penso si riferisse al mio modo di affrontare le cose, a volte disincantato, ma sempre curioso, come ogni scrittore deve fare.
Quando perdi la curiosità, la voglia di imparare cose nuove, significa che non hai più nulla da dire.
Cosa pensi dell’arte di Ennio Flaiano che i giovani di oggi non conoscono? E degli scritti di Achille Campanile?
Ovviamente li adoro entrambi, sono cresciuto con i loro libri, i loro racconti, la capacità di Ennio Flaiano di sintetizzare in una frase fulminante un concetto, e quella di Campanile di perdersi nei rivoli dell’assurdo. Penso che andrebbero studiati nelle scuole, nei libri di antologia.
Per finire: quali sono i tuoi progetti per il futuro? Cosa farai da grande?
Mi piacerebbe scrivere un romanzo, misurandomi con una storia lunga, ma per quello attendo l’ispirazione giusta. Nel frattempo continuo a scrivere per il teatro, per i comici, per il mio blog, per i social network. Per tutto il resto, d’altronde, C’è tempo.
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