Cinquantasette: i giorni che separano la strage di Capaci da quella di Via D’Amelio, divenute simbolo ed emblema in senso negativo di tutta un’epoca e dell’Italia in genere. Immagini rimaste indelebili nella memoria di chi, come il nostro autore, ha vissuto quei tempi. L’interrogativo allora è: come non cadere nella retorica e nel sentito, parlando di un fatto così usato da tutti i media audiovisivi, sempre per quel dio quattrino, che inquina i nostri tempi? Ebbene, Antonio Fragapane ci riesce ancorandosi alla dottrina dei narratori più robusti. Raggiunge gli effetti da lui desiderati partendo proprio dal suo punto di vista. Diceva Pavese: “Nulla è più importante, iniziando un’opera d’arte, del garantirsi il punto di vista”. Ed in questo Fragapane è abile. Fa partire il racconto proprio da un’abitazione rurale sita nello scenario fiabesco di Cometa dove lui vive e di tutte le sue personali sensazioni: la legna che brucia nel forno, in quel giorno di festa, il suo stato d’animo pronto ad assaporare già la bella stagione e le vacanze e soprattutto quel segnale dato dal vento che improvvisamente cambia diventando freddo, soggetto questo di molte scene di letteratura, ma anche cinematografiche come presagio di maledizione.
Il racconto è strettamente legato al suo vissuto ed al suo territorio come ogni grande autore impone. Taglia e ricongiungere con destrezza il filo della narrazione, tra giornate passata in comitiva e i fatti delle stragi. Il racconto così si snoda e si avviluppa lungo un asse spazio-temporale compreso proprio in quei cinquantasette giorni sempre con semplicità e chiarezza. Parte dal vissuto, per raccontarci il fatto così come un adolescente lo vive. Ed in questo excurrere testuale non si muove a caso, ma va dove i suoi riferimenti stilistici lo portano. Senza toccare mai registri da sottobosco. L’immagine messa a fuoco è quella di un quattordicenne attento e sensibile a tutto ciò che attorno a lui si svolge e cambia: un ragazzo lucido, che già allora percepisce che quelli sono eventi che segneranno il corso di tutta un’epoca e cambieranno per sempre la storia della Repubblica Italiana.
Copertina di questo racconto, a scanner del contenuto, è la rivisitazione dell’artista Andrea Trapani di una fotografia di Falcone e Borsellino, che svetta su molti tribunali d’Italia, divenuta simbolo, icona in tutto il mondo, della giustizia, della legalità, del coraggio, della dedizione, del sacrificio, dell’impegno, ma anche e soprattutto del bene che vince e trionfa sul male e sulle ingiustizie di tutti i giorni. Le linee guida del racconto sono tracciate e intrecciate da un naturalismo (in uno squarcio di narrazione) scevro da preconcetti e degno per riferimenti stilistici e soluzioni tecniche a Zola. L’io narrante ci racconta le sue impressioni, così come le ha vissute in quei giorni, senza inutili fronzoli o peggio debordanti oleografie e ridondanze retoriche. Le sue immagini sono chiare, impresse nella mente e così li propone al lettore con immediatezza e semplicità. Ma ciò non significa che è stato scritto di getto, la costruzione ci dice invece che c’è un preciso lavoro “d’officina”, affinché le tessere di questo mosaico risultino composte da una sequenza logica.
Mi pare un lavoro degno di nota, non soltanto per l’importanza del tema trattato che come ho già spiegato poteva anzi diventare controproducente, ma quanto per gli addentellati stilistici e formali usati dal nostro autore con semplicità, decenza, senso del limite, senza perdersi mai nelle infinite strade della narrazione.
Federico Li Calzi
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