Prof. Calogero Saverio Vinciguerra
Docente di Pittura I cattedra e di Metodologie e tecniche dell’affresco Accademia di Belle Arti di Firenze
L’articolo di Franco Pullara pubblicato su SiciliaOnPress.com del 28/02/2020, dal titolo Povera Favara, non può che colpirmi, in qualità di favarese espatriato ormai da anni; la lontananza, come si sa, il più delle volte non solo non offusca il ricordo delle proprie origini, ma anzi non fa che alimentare il senso di appartenenza al territorio da cui si è partiti e, perché no, a volte instilla un po’ di sano orgoglio campanilistico; senza scadere in banali luoghi comuni insomma, in questi casi ci si accorge di quanto si è lasciato alle spalle e quanto diversa potrebbe essere la stata la propria vita, se si fosse fatta la scelta di continuare a vivere i propri luoghi e a difendere da vicino le proprie radici.
Pertanto, ogni cattiva notizia che arriva dal nostro territorio, viaggiando veloce sulle ali dei social networks e degli altri canali,_non mi lascia meno sgomento, essendo la mia un’affezione sincera per Favara, simile in certi modi all’affetto che si potrebbe provare per una persona cara; niente di più, niente di meno.
Il contenuto dell’articolo di Franco Pullara è doloroso, per quanto non del tutto sorprendente, provenendo da un territorio come il nostro che sovente lamenta sì di essere trascurato e abbandonato a sé stesso, ma tutto questo senza rendersi conto di quanto la memoria sia una materia collettiva e quanto debba essere curata e difesa dai cittadini stessi, che il più delle volte sono i primi a non guardarsi intorno e a non rendersi conto della quantità di ricchezza tramandata dai nostri avi: molta, moltissima; forse, e questo potrebbe essere il problema, troppa.
Non posso e non voglio far finta di nulla. Lo scempio che Franco Pullara ci pone sotto gli occhi non può lasciarci indifferenti. Favara è un luogo di valore storico eccezionale ma l’interesse per la ricostruzione storica è un fenomeno recente. Da poco più di un ventennio, assistiamo al lavoro straordinario di studiosi che hanno intrapreso con metodo scientifico una ricostruzione sistematica e documentaria del territorio e dell’identità comune. Solo per citarne alcuni: Carmelo Antinoro, Filippo Sciara e Antonio Arnone.
Come dicevo, non vivo più a Favara da oltre quarant’anni, ma ho sempre nutrito interesse e curiosità per la storia della mia patria (la Sicilia) e del mio paese. Questo mi ha permesso di portare avanti indagini e ricerche soprattutto sul sito in questione: Caltafaraci. Apprendere come tutto si stia perdendo trasformandosi in una discarica a cielo aperto offende tutti, offende me, offende la cultura che fino ad oggi ha animato la scena favarese. Nei primi anni di studio presso l’Istituto d’arte di Agrigento, e attraverso lo studio della storia dell’arte classica greca, ebbi la possibilità di comparare quello che studiavo a scuola con gli innumerevoli frammenti che vedevo a terra a Caltafaraci. Il terreno era cosparso di ceramiche finissime, elementi di trabeazioni in tufo erano sotto gli occhi di chiunque, ed anche allora essi giacevano abbandonati nell’ indifferenza.
Come per tanti ragazzi della mia generazione, Caltafaraci è sempre stata un luogo leggendario e misterioso, che ci ha sempre ispirato una certa curiosità, che generava molteplici domande che spesso non trovavano risposta, o tutto l’argomento veniva licenziato con un classico: “Chi nn’a ffari? Cosi vecchi su’” frase ricorrente ancora oggi quando si vuole liquidare la questione in modo spicciolo.
Non essendomi tuttavia mai accontentato di queste risposte massimali, da qualche tempo (forse per nostalgia di quei giorni splendidi passati da ragazzo a Caltafaraci) ho voluto cercare maggiori e più esaurienti informazioni riguardo gli interrogativi che erano rimasti ancora in sospeso; le soluzioni che mi erano state fornite fino a quel momento non mi soddisfacevano in alcuna maniera.
Da dove nasce il toponimo di Caltafaraci? svariate sono le letture riscontrabili; fatto sta, che quella che gli agrigentini chiamano genericamente a Muntagna, conserva ancora intatto per noi favaresi un carattere personale e identitario.
Un giorno finalmente, mi sono imbattuto in un preciso passaggio di Plutarco. Ho percepito immediatamente che si trattava di una delle tanto attese risposte, e che forse proprio il destino, grazie al legame profondo e tuttora vivo che ancora mantengo col monte Caltafaraci, mi aveva fatto incontrare. Il passaggio in questione è il seguente e si fa menzione del personaggio di Farace, valoroso condottiero spartiata che si muoveva nelle nostre contrade nel tempo della guerra civile di Siracusa (357 a.C.) che vide contrapposti Dione e Dionisio II:
“Φάρακος δὲ πρὸς Νέᾳ πόλει τῆς Ἀκραγαντίνης στρατοπεδεύοντος, ἐξαγαγὼν τοὺς Συρακοσίους ἐβούλετο μὲν ἐν ἑτέρῳ καιρῷ διαγωνίσασθαι πρὸς αὐτόν, Ἡρακλείδου δὲ καὶ τῶν ναυτῶν καταβοώντων, ὡς οὐ βούλεται μάχῃ κρῖναι τὸν πόλεμον Δίων, ἀλλ‘ ἀεὶ μένοντος ἄρχειν, ἀναγκασθεὶς συνέβαλε καὶ ἡττήθη.”
“Farace era accampato presso Neapolis, nel territorio agrigentino, e Dione condusse in avanti i Siracusani, volendo tuttavia rimandare lo scontro diretto a un momento migliore. Questo diede occasione a Eraclide a ai suoi marinai di accusarlo di aver rimandato la battaglia al fine di rimanere in carica di comandante per più tempo possibile. Fu perciò costretto all’azione, pur se controvoglia, e venne battuto (Dal Condottiero spartiata Farace, ndr)”
Plutarco menziona la zona come teatro di alcuni eventi fondamentali dello scontro tra i siracusani. Farace pertanto si trovò ad accamparsi nel nostro territorio per motivi di ordine militare. Chissà che questo passaggio, seppur breve, non sia rimasto comunque nella memoria collettiva, testimoniato da un toponimo, per tutta onestà a mio dire, chiarissimo e lampante? Molti secoli più tardi, nel Settecento, una spedizione mossa dall’ interesse di mappare storicamente e geograficamente il territorio con intenti archeologici, ricostruisce con più metodo una nuova lettura di quei luoghi, tra le altre cose investigando anche il sito esatto dell’antica città plutarchea. Il lavoro è di padre Giuseppe Maria Pancrazi e rimane uno dei più puntuali in materia, anche per l’onestà intellettuale dell’autore di sapersi fermare al momento giusto, qualora le circostanze non gli diano sufficienti elementi per sbilanciarsi e confermare le proprie ipotesi.
Molto si è scritto (ma forse non molto con cognizione di causa) circa i luoghi plutarchei, e nelle mie ricerche ho sorprendentemente scoperto l’esistenza di un dibattito “sotterraneo” più florido di quanto mi aspettassi, un dibattito che va avanti da secoli. Una semplice riga di Plutarco può suggerire così tanto circa i nostri avi? Molto si è dibattuto, e personalmente la mia tesi mira effettivamente a ipotizzare la coincidenza del luogo plutarcheo con l’antico insediamento sulla collina di Caltafaraci – ma indipendentemente da ciò, l’esistenza di un insediamento, se non di una fiorente città, è innegabile: solo per addurre qualche testimonianza concreta, presento i seguenti brani:
“I recentissimi scavi condotti sulla collina di Caltafaraci presso Agrigento 26 hanno portato alla luce una cinta muraria di età dionigiana costituita da un muro ad aggere dello spessore di m. 2,40 a doppio paramento con emplecton di pietra[1] (…)”
“Dalla località Caltafaraci (Favara), nell’ Agrigentino, lo scavo dell’Acropoli ha restituito molte monete di bronzo di cui 7 di Siracusa[2](…)”
“Un esempio sono gli scavi sulla collina di Caltafaraci presso Agrigento, che hanno restituito l’immagine di una città prospera in epoca dionisiana (IV sec. a.C., ndr.). L’estrema vicinanza con Akragas rende quanto meno strano che « nell’ambito dello stesso territorio potesse prosperare una città come questa di Caltafaraci[3] (…)”
“Più Sud poi, nei pressi di Favara, sul colle di Caltafaraci sono stati riconosciuti segni evidenti di un abitato indigeno di età protostorica[4](…)”
Come si può vedere, l’area era evidentemente già abitata dall’età del rame. A seguire, diverse campagne di scavi hanno confermato la presenza di una città dotata di fortificazione e una propria acropoli. I riscontri risalgono a campagne di scavi commissionate dalla sovrintendenza archeologica di Agrigento che vanno dalla fine degli anni ’80 alla fine degli anni ’90.
Perché quindi si continua ad assistere allo scoraggiamento di qualsivoglia intervento di ricerca e interesse, se non addirittura alla negazione, di cose di cui abbiamo riscontri oggettivi? Un totale disinteresse equivale di per sé ad una negazione, e un ulteriore abbandono di quei reperti che oggi si trovano davanti agli occhi di tutti potrebbe portare a una irrimediabile perdita definitiva degli stessi, e a quel punto il gioco sarà fatto: l’innegabile sarà diventato ormai negabile, per la felicità di chi intende sminuire la nostra storia e con essa la nostra identità.
Spendo qualche altra riga soltanto per ricordare che il barone Mendola, grande personaggio e benefattore della nostra città, a suo tempo donò alcuni reperti trovati nel suo terreno sito in contrada Saraceno. A tutt’oggi essi sono esposti in una teca, quasi dimenticata, presso il museo archeologico di Agrigento; questo è solo uno dei tanti esempi della noncuranza e della ingratitudine riservata a chi tenti di restituire alla nostra comunità quello che merita. Nel suddetto museo continua a giacere questa collezione di “vasi del primo periodo, donati al museo dal barone Antonio Mendola[5]”.
Alla luce della quantità di materiale che ho illustrato, di cui per ragioni di spazio testuale posso esporre soltanto una piccola parte, quanto accade sul colle Caltafaraci non può lasciare indifferenti: la tutela, la salvaguardia, la conservazione e la valorizzazione sono di pertinenza dello Stato. Ancora oggi ci troviamo a reclamare la presenza dello Stato al fine di garantire il diritto inoppugnabile di un bene culturale che appartiene a tutta la collettività. Come si può dire oggi “non sapevo”, “non so”, di fronte a dati così oggettivi ed evidenti?
Voglio ringraziare la testata SiciliaOnPress.com, che si è occupata di questa vicenda nella persona di Franco Pullara, che ha affrontato il caso con rara sensibilità. Mi auguro dunque che gli organi di competenza, almeno sul piano della valorizzazione e della tutela svolgano il ruolo che gli compete, e in questa fase provvedano almeno a segnalare la zona di interesse e vietare che si possano disperdere ulteriormente i reperti rimasti. Mi auguro fortemente che l’appello di Pullara non cada nel vuoto e che possa qualificarsi come un nuovo punto di partenza per la nostra comunità per riaffermare la propria storia e la propria cultura.
[1] G.Macchiaroli, La parola del passato, 1984, Volume 39, p.382
[2]A.A. V.V., Kōkalos: studi pubblicati dall’Istituto di storia antica dell’Università di Palermo, Volume 39, Parte 2, Edizione 2 Volume 40, Parte 2, Edizione 2 Banco di Sicilia, 1995
[3]AA.VV., Kōkalos: studi pubblicati dall’Istituto di storia antica dell’Università di Palermo, Volume 34, Parte 1 -Volume 35, Parte 2, Banco di Sicilia, 1993
[4] AA.VV., Architettura, arte e artigianato nel Mediterraneo dalla preistoria all’alto Medioevo: atti della Tavola rotonda internazionale in memoria di Giovanni Tore : Cagliari, 17-19 dicembre 1999, S’Alvure, 2001
[5] V. Giannotta, Miscellanea di studi sicelioti ed italioti in onore di Paolo Orsi, 1921