Giuseppe Maurizio Piscopo
Ha imparato ad ascoltare il disagio e la sofferenza di molti, compresa la sua, da MEDICARTISTA. Mi sono sempre occupato di marginalità: la follia all’ex manicomio di Agrigento, l’handicap (Sai parlare l’handicappese?) a Casa della Speranza, innumerevoli stages come medico e counselor relazionale e formazione in tutte le scuole di ogni ordine e grado, il carcere, gruppi giovanili e molto altro. E l’Africa, il Kenia e il Congo. E poi la musica: CANTAUTORE e MUSICISTA(Il mio piccolo giudice, Di un’amante sconosciuta …); SCRITTORE, Lo scirocco e il mare (pubblicato in proprio); Le ragioni del fuco (Spazio Cultura Edizioni, Palermo) Rosa la sguattera (in fase di pubblicazione) e, appunto, Il Medicartista: del corpo la cura e le parole (in fase di pubblicazione con Medinova) … ; il TEATRO in tutte le sue declinazioni: Giselda,La carne sigillata, La scena vuota, Calòiru Pìspisa, Io siciliano sono, anzi di Naro, La mia scelta… E poi il CINEMA, come attore, tra cui La scomparsa di Patò (di Rocco Mortelliti, da Andrea Camilleri) L’ora legale (di Ficarra&Picone)ARRITMIA (prima produzione siculo-messicana di Gibran Bazan, in uscita) … sembra troppo ma in realtà … è ancora poco! Insomma, aldilà delle apparenti spocchie, una persona dagli interessi complessi e variegati! J
Quando hai imparato a suonare la chitarra?
Relativamente tardi, ho cominciato a strimpellarla intorno alla terza liceo Scientifico, a Canicattì, cioè 1974-75, poi l’ho studiata per qualche anno all’Istituto musicale Vittadini di Pavia, dove frequentavo la facoltà di Medicina. In realtà proprio in questo Istituto studiavo ufficialmente flauto traverso con il maestro Bruno Villani, poiché avevo avuto molta più dimestichezza con gli strumenti a fiato, soprattutto all’inizio con i flauti a becco – i barocchi in particolare: studiavo Bach! – e i friscaletta, cioè gli zufoli di canna.
Come eri da bambino, cosa ti attraeva della musica?
Ero curioso e tendenzialmente solitario, volevo capire come funzionavano le cose, ma soprattutto ero dentro un’atmosfera di incanto e meraviglia che manifesto molto ancora oggi. Cosa mi attraeva della musica? … In realtà per me tutto era musica, mi arrabbiavo a tre anni perché, suonando un pianofortino dove i tasti neri erano semplicemente disegnati, non riuscivo a produrre i suoni alterati della tastiera – i bemolle e i diesis, per intenderci – e comunque ho sempre seguito istintivamente innanzitutto il ritmo di ogni cosa: dal respiro ai passi, e al battito cardiaco – non sembri un caso, ma ha a che fare anche con il mio essere medico.
Ho letto che sei nato a Desio nella lontana Lombardia…
Già. Mio padre era emigrato dalla natìa Campobello di Licata dove faceva il contadino – mia mamma era di Naro, alla quale, tra l’altro, ho rubato il suo cognome: Bracco, mi suona bene come risonanza e recupero esplicito della mia parte femminile e materna. A Desio si dipendeva tutti dall’Autobianchi: il terùn barbaro, mangia-lumache e zappaterra, figlio di emigrati siciliani e come tale sfottuto; salvo poi, rientrati in Sicilia, a Naro, quando avevo sei anni, ritrovarmi a essere ancora sfottuto perché parlavo milanese, come una fimminedda! Questa ambivalenza irrisolta si è trasformata in una grande risorsa creativa e artistica, non solo musicale, ma anche, o soprattutto, teatrale e letteraria.
Quale ricordo hai del maestro di scuola, dei compagni, dell’atmosfera di allora a Naro?
Ho scritto parecchio, a riguardo. Non solo il mio spettacolo Io siciliano sono, anzi di Naro, ma anche il romanzo Rosa la sguattera, la mia piccola storia con la “esse” minuscola narrata con gli occhi di un bambino, appunto. Mi ricordo strade affollate di gente – ora è quasi un deserto triste – un’atmosfera comunque accogliente, protettiva,e delle scorribande per le strade di Naro insieme agli altri bambini del mio quartiere – ogni volta una scoperta … A scuola fino in terza elementare avevo avuto una dolcissima signora che si chiamava maestra Pitanza, poi in quarta e quinta ho avuto il maestro Carcione, già sindaco di Naro, un uomo tutto di un pezzo, all’antica, molto severo con i miei compagni. Entrambi, devo dire, si erano accorti dei miei talenti.Fin quando frequentavo la scuola media, mi ricordo parecchi altri bambini più piccoli, che continuavano ad avere il prof Carcione come maestro, venivano da me a dirmi: Totò, u sa? U prufissuri nni fici lèggiri i temi to! (Lo sai, il professore ci ha fatto leggere i tuoi temi).Una grande soddisfazione.
I bambini digitali sono felici, tu sei stato un bambino felice?
Io avevo i miei nonni, per fortuna, che mi insegnavano e mi raccontavano un sacco di cose. Pensando a loro trovo un senso di gioiosa pacatezza, più che di felicità. Io tra l’altro prediligevo i vecchi perché ero affascinato dalle loro storie, ma ce n’era uno in particolare, il poeta-falegname Pietro Gueli Alletti, che mi è rimasto nel cuore: “Preda già sugnu d’un’età sfiurita …”, il verso di una sua poesia. Oggi dove sono quei nonni che raccontavano cose, che insegnavano ai bambini una tradizione, dei valori, ma soprattutto dove sono quei bambini che dovrebbero ascoltarli? Da una parte l’Alzheimer e similari, dall’altra l’iper-connessione impediscono di fatto ogni contatto di questo tipo.
Quale era l’atmosfera musicale che si viveva nella tua infanzia a Naro?
Molto vivace, un grandissimo patrimonio antropologico che ancora oggi è base, quasi come un vocabolario, per le mie composizioni: ho avuto la fortuna di ascoltare direttamente i carrettieri, i contadini, i venditori ambulanti, i banditori, le salmodie della settimana santa, da cui ero rimasto completamente affascinato nella mia fanciullezza a Naro, dai sei anni in poi – e i cantastorie? Busacca tra i primi ma anche Trincale – e contemporaneamente di frequentare, attraverso varie associazioni, concerti di musica classica: a Naro venivano fior fiori di musicisti, da Gazzelloni ad Accardo, tanto per fare qualche nome, e io ne godevo. E poi i gruppi folkloristici che ancora avevano una pregnanza antica e meno “folkloristica” di oggi, e i tanti ragazzi che formavano i cosiddetti “gruppi” che suonavano la musica pop e rock di allora, e i suonatori di chitarra, fisarmonica e mandolino nei barbieri, che riproponevano variazioni molto personali di danze e melodrammi, per la maggior parte senza consapevolezze tecniche ma con una forza espressiva così potente da renderli comunque facitori di una musica alquanto originale e creativa, e che, come una sorta di metodo di cui sono diventato consapevole a partire dai primi anni ‘80, hanno segnato il mio modo di intendere la musica, soprattutto quella che deriva dal mio essere “siciliano”. E poi a Naro c’era anche una grande tradizione di friscalittara… grazie ad uno di loro, ‘u zi Firdinannu Miccichè, ho imparato a suonare u friscaliettu, che poi si è evoluto nel flauto dolce barocco e poi, ancore nel flauto trasverso (che ho comunque abbandonato).
Tu sei un chitarrista, un compositore In una parola sei la Musica…Ma che cos’è per te la Musica?
Be’, un linguaggio, più o meno puro o articolato scientemente, ma più esattamente una connessione tra espressioni tra di loro spesso divergenti, eppure, se si va a scavare, è ciò che tutti i componenti dell’umanità di tutti i tempi hanno in comune: ritmo, melodie, armonie, che possono risentire di evoluzioni culturali e tecniche molto diversificate, ma al fondo la musica è innanzitutto l’essenza di ciò che riguarda la nostra appartenenza alla specie umana.
Tu sei un medico particolare, che cos’è il disagio nel tempo in cui viviamo e come si affronta?
È il non impegnarsi in un progetto comune; è aver perso il senso di identità e di appartenenza all’interno di un gruppo o di una comunità che ci renderebbe comunque tutti diversi ma potenziale risorsa per chiunque sia “altro”; è la depersonalizzazione imperante che, attraverso Internet e la globalizzazione, non ti permette più di riconoscerti in relazioni nutrienti ed evolute, e anzi produce pericolose destabilizzazioni del pensiero che mettono in secondo piano persino i disturbi dell’umore;è l’incapacità – almeno per ora – di riuscire ad utilizzare il suddettoglobal per favorire il proprio essere local;è quasi l’impossibilità di poter raccontare la propria piccola storia con la “esse” minuscola, mentre per contro si avverte impotenti al fatto che la Storia ufficiale, quella con la “ESSE” maiuscola, siano sempre altri a scriverla al posto nostro; è l’allontanamento per certi versi programmato dalla percezione dei propri bisogni realie dai propri talenti, che nessuno più tende a valorizzare e a promuovere, ma anzi prevale l’insana convinzione che sia soprattutto qualcosa di esterno alle persone a impedir loro di esaudire i propri bisogni e a mettere in gioco i propri talenti, tranne a non sottomettersi a un’idea dominante; è la perdita del senso del sé a favore di un anonimo, indifferenziato, amorfo senso di un “noi” ormai social-networkizzato e che produce terrificanti malesseri e malattie che vanno ad alimentare, invece, e a più titoli e strati, interessi che nulla hanno a che fare con l’acquisizione del Ben-essere. È meglio che mi fermi.
Che cosa vuol dire medicartista, è un medico diverso?
Il medicartista è un medico il quale, nel suo mettersi in relazione (d’aiuto) con sé stesso, gli altri, il mondo, attinge non solo dalle sue competenze professionali – quali che siano e qualunque itinerario istituzionale di formazione abbia seguito – ma anche dalle sue risorse umane, modulandole alla conquista del benerelazionale, ovvero di quella dimensione di relazione evoluta in cui ognuno esprime il meglio di sé stesso, con gratificazione, autorealizzazione e al contempo umile servizio, e integrando le acquisizioni della certezza scientifica tipiche della Medicina basata sull’evidenza clinica – più pertinenti alla sua visione di desease – con la consapevolezza della sua capacità di narrarsi e di permettere all’altro di narrarsi, nell’ottica di una Medicina basata sulla narratività, ovvero della Illness narrative, che predilige il punto di vista del paziente, ampliando così l’attenzione dall’Oggetto: la Malattia, al Soggetto e al suo vissuto, senza mai nulla tralasciare per il conseguimento e la promozione del Ben–essere della persona, compreso sé stesso, in un cammino di crescita e di condivisione culturale comune: la Regola scientifica del Medico clinico coniugata alla Creatività dell’Artista nel trovare soluzioni comuni ma soprattutto nel parlare linguaggi comuni.
Che cos’è il linguaggio del corpo?
È il linguaggio della persona, intanto, il corpo inteso come Soggetto, non come Oggetto, è ciò che esprime esattamente il nostro essere e il nostro rapporto con tutto ciò che ci circonda in maniera sincera e reale, senza gli infingimenti, le censure, le manipolazioni della cosiddetta Mente – ma che, in reciproca armonia, può parlare anche il linguaggio della coscienza e della consapevolezza – quindi Corpo-Mente sono un unicum inscindibile – ma non per indirizzarlo verso una visione “comune” – oggi per lo più “scientifica” – ma per favorire l’espressione originale e unica di ognuno di noi, compresi i propri inevitabili malesseri, ma stavolta in grado di comprenderli – come linguaggio, appunto – e dunque risolverli. La Medicina e il Teatro secondo me sono il naturale àmbito dentro cui questo può avvenire.
Perché gli uomini di oggi sono così violenti con le donne che dicono a parole di amare?
È evidente una crisi di genere, di ataviche culture maschiliste, ed è altrettanto evidente che ancora agiscono nella nostra cultura – e non solo occidentale – archetipi primitivi che dànno al maschile un predominio violento sul femminile. E non è soltanto una questione di femminicidio. Penso per esempio a quanto succede in alcune zone dell’Africa, o a quanto certe culture intrise di “religionite” ancora oggi impongano arbitrariamente – estremisticamente – una visione del tutto maschile della vita, sottomettendo e relegando il femminile a mero servizio del maschile. Io penso che il maschio oggi sia in crisi e diventi violento perché non sa riconoscere, o neghi dentro di sé la sua parte femminile, la sua sensibilità, il fatto che – vittima di quegli archetipi: paternità, fraternità … non sia in grado di liberarsene e dunque di accettare l’ormai affermata pari dignità e opportunità di genere, dentro cui non sa più che pesci prendere. È la crisi del maschio, ma anche del Padre, e dunque dell’Autorità. Anche questo mi sembra evidente. Per quanto, a dire il vero, dall’altra parte possa scorgersi spesso il tentativo di far prevalere atteggiamenti tipicamente “maschi” per imporre la propria presenza nel mondo. Estremi a cui bisogna porre attenzione.
La bellezza salverà il mondo… Puoi commentare questa frase di un celebre scrittore russo?
Basta guardare alla bruttezza di certe periferie metropolitane e non solo, a quale cultura – o non-cultura! – diano luogo, alla marginalità, al disagio che produce e di come questo disagio sia, più spesso di quanto non si creda, sfruttato da parte di certi Potentati pseudo-belli di facciata, che dirigono o tentano di dirigere i destini del mondo a loro uso e consumo, secondo criteri e fini sconosciuti ai più; la bellezza – la percezione e il discernimento della bellezza – è innanzitutto la manifestazione di un’evoluzione spirituale, che trascende pur senza negarli persino i bisogni primari materiali e la loro elaborazione psichica, fino a recuperarli in una visione di benessere comune: imparare a riconoscere la bellezza in sé e negli altri è appunto la soluzione creativa, è la coincidenza con l’etica, quella che mi sforzo di promuovere – scusa la presunzione – da medicartista.
Le tue pubblicazioni discografiche sono molto impegnate: Il mio piccolo giudice,
Parole perdute, Di un’amante sconosciuta… e le cose leggere le lasci scrivere agli altri?
Dici? Per me il concetto di leggerezza non coincide con il concetto di evasione. Con quello di divertimento sì, ma ogni forma d’arte è divertimento, per dirla con Brecht. La mia primissima formazione, l’imprinting per così dire, è lombarda, milanese in particolare, oltreché pavese. I miei riferimenti sono tantissimi – non sto qui a dirti delle mie partecipazioni alle conferenze-stage di Strehler, né delle suggestioni di Dario Fo, per esempio – che è riuscito tra l’altro a mettere insieme, organicamente, espressioni popolari le più diverse, comprese quelle del Sud della nostra Rosa Balistreri, e Otello Profazio, e del Nord, in particolare Enzo Jannacci e Giorgio Gaber. Ecco, il metodo è quello, parecchio speculativo, se vuoi, approfondito, e per certi versi impegnato nel modo in cui lo intendeva Pasolini. Per cui un mio disco – ma anche un mio libro, o una mia pièce teatrale, non sono mai per me un semplice luogo di evasione: l’artista – o, se preferisci, nel mio caso: il medicartista – oggi più che mai ha il dovere della consapevolezza, è l’unico modo che ha di rimanere veramente libero, malgrado questa possa produrre molta sofferenza, a causa del suo innato protagonismo.
Il tuo rapporto con il Cinema: hai recitato nell’ora legale, nella Scomparsa di Patò, in Just a time di Leonardo Sicurello, nel delitto Guarino sindaco del mio paese. Ma ti senti veramente un attore o lo fai per divertirti?
Un altro film a cui tengo molto è Arritmia, regia di Gibran Bazan, sensibile e geniale rappresentante della NouvelleVaguemessicana, se mi è permesso esprimerla così, prima produzione siculo-messicana che mi vede come il protagonista negativo, il cattivo della situazione, e girato in parte anche ad Agrigento. Io sono attore per caso, anche a teatro, mi reputo soprattutto un autore, uno scrittore, un compositore, e quando calco le scene sono dentro le mie idee, i miei progetti. Per quanto interpretare un personaggio cinematografico abbia un fascino innegabile: si è talmente dentro … che spesso non capisco se io mi sia impossessato, letteralmente, del personaggio o lui di me. È qualcosa di straordinario e impensabile, anche qualcosa di molto faticoso, soprattutto uscirtene finite le riprese.
Tu sei il punto di riferimento della Cultura a Naro, “Notti bianche”, concerti, incontri con i musicisti siciliani… Ne vuoi parlare?
Non lo so, può darsi, ma non vorrei appropriarmi di meriti che non ho. E comunque Naro per me è un luogo di ispirazioni, ci abito, in tutti i sensi, anche quando sono fuori, come Porto Empedocle per Camilleri, o Racalmuto per Sciascia, Cianciana per Di Giovanni, la stessa Favara per Russello – ti sembro irriverente? – Naro però fino a un certo punto. Io mi muovo tanto, fino a qualche anno fa il mio riferimento in realtà era – e per certi versi lo è ancora – Agrigento. Ma Palermo lo sta diventando di più – la mia attuale casa editrice, Spazio Cultura Edizioni, è gestita da Nicola Macaione, palermitano, appunto: Le ragioni del fuco– e poi anche la stessa Pavia, Milano, il Veneto … insomma, un sacco di riferimenti, a Naro non faccio granché, devo dire, uno spettacolino o due l’anno, giusto per esserci. I miei libri li ho presentati a New York, a Palermo, ad Agrigento. Ma io sono comunque molto orgoglioso di Naro. E credo anche Naro lo sia di me, non per nulla Io siciliano sono, anzi di Naro, che è il titolo di uno dei miei spettacoli che ho presentato in prima nazionale all’Expo di Milano.
Quante chiese vi sono a Naro, quante sono quelle chiuse?
Beh, in teoria sono ancora tutte fruibili, a parte San Francesco – splendida facciata barocca – e San Salvatore, raro esempio di protobarocco con colonne tortili – che avrebbe bisogno di restauri interni. Il problema è che i parroci sono appena tre, se non ricordo male – a parte i sacerdoti del famoso santuario di San Calogero – ed è impossibile gestire a pieno orario tutte queste chiese.
In confidenza ma i naresi sono cattolici, vanno in chiesa fanno opere buone?
In confidenza, non saprei. Ci sono molte persone dotate di buona volontà. Naro è una grande città, ma anche i naresi sono davvero straordinari. Ospitano una discreta colonia di rumeni e di ragazzi extracomunitari. A volte però si rinchiudono in una specie di aristocratico isolamento che non permetteva in un passato molto prossimo, una crescita, non solo sociale, ma anche economica: più della metà del paese è disabitato per note questioni migratorie. Tuttavia, negli ultimi tempi, c’è un risveglio molto discreto ma presente che sta permettendo alla città di rifiorire, penso alle numerose strutture agrituristiche che sono nate e stanno nascendo, alle numerose associazioni che animano la vita cittadina, penso ad alcune eccellenze naresi che stanno dando lustro attualmente nel mondo a Naro: mi viene in mente Piero Barone, per esempio, del Volo, ma anche Francesco Lo Monaco, grande cardiologo e ricercatore medico che ha contribuito a sviluppare le conoscenze sulle cellule staminali cardiache, e che dirige una sua splendida struttura policlinica “interculturale” a Londra e tantissimi altri. Sto qui a tacerti dell’enorme tradizione culturale che ha reso Naro nei secoli scorsi un riferimento e non solo provinciale.
La maggioranza dei siciliani non ha mai visitato Naro, città d’Arte, cosa si può fare per rilanciarla?
Abitarci, e comprarvi casa. Da parte dei non naresi. Degli stranieri in particolare. Ce ne sono tantissime e di stupende, case storiche. Ovviamente un cambio di direzione nel senso imprenditoriale. Valorizzare le eccellenze. Promuovere i talenti. E un buon caffè. Per risvegliare qualche narese da un atavico torpore. O da un accidioso laissezfaire, che permette alla mediocrità, e alla banalità, di prevalere, almeno nelle apparenze. Perché nella sostanza le cose per fortuna sono abissalmente diverse. Ma siamo già sulla buona strada, almeno per quanto mi riguarda.
Cosa pensi del fatto che nelle case dei siciliani, ci sono tv a 50 pollici in quasi tutte le stanze e pochissimi libri?
Vero, leggiamo pochissimi libri. Però in compenso noi siciliani ne scriviamo tantissimi. La maggior parte degli italiani – siciliani compresi – passa un picco medio fino a cinque ore giornaliere davanti la TV. Tutto questo ha delle conseguenze immaginabili intuitivamente, ma non facilmente smascherabili. Tutto in funzione di audience … la televisione, a partire dagli anni novanta, è diventata il luogo del con-senso, in tutti i sensi: ogni programma, compresi quelli a più alto contenuto culturale, tendono a carpire il consenso dei telespettatori, che quasi sempre, già inebetiti dai notevoli progressi tecnologici di smartphone, computer e tablet di cui siamo prigionieri (e sembra che non ci siano alternative) hanno smesso di pensare con la propria testa, abdicando il proprio senso critico a qualche ventata di moda dominante, oppure astenendosi completamente dall’esprimere il proprio parere – magari non andando a votare, per esempio – situazione che secondo me predispone a pericolose derive.
Se per un giorno fossi il presidente della regione cosa cambieresti in Sicilia in tre mosse?
Essere al governo di una regione importante come la Sicilia, al centro del Mediterraneo, e pertanto al centro di smisurati interessi d’ogni tipo, è una grossa responsabilità. Chiunque sia al suo governo, non è certo dotato di poteri tali da cambiare le cose con uno schiocco di dita. Intanto l’eletto rappresenta sempre i suoi elettori, nel senso che gli somigliano, e poi la nostra situazione è talmente complessa e ingarbugliata … ecco: basterebbe che ognuno imparasse a fare il proprio dovere, oltre che reclamare i propri diritti, pretendendo sempre il meglio da sé stesso, e mettendolo al Servizio degli altri. Ma è un processo lungo, che richiede ben altre consapevolezze, culturali e sociali, e un senso del bene comune che ancora – in quanto “comune” – non possediamo. È un’utopia, che può trasformarsi in concreta speranza se solo lo decidiamo. Stiamo crescendo.
Qual è il maggior pregio degli abitanti di Naro ed il peggiore difetto?
Credo che i migliori – o coloro i quali io reputo essere i migliori – non abbiano un’alta autostima, non si sentono mai all’altezza e reputano di non essere in grado di cambiare realmente le cose a favore del bene pubblico. Onesti, e ingenui, in una continua tensione verso una crescita mai ritenuta abbastanza valida, approfondiscono troppo e si perdono per strada, senza mai raggiungere obiettivi concreti. Invece coloro i quali io reputo essere i peggiori, sono molto furbi, ricercano innanzitutto il consenso, mettono in mostra se stessi, non si pongono quasi mai limiti etici e vanno avanti per la loro strada raggiungendo obiettivi a breve scadenza di grande efficacia per la promozione del loro io. Mah. Non saprei. Sono pregi e difetti riscontrabili in qualunque comunità. L’invidia forse è il difetto più grande, spesso insieme alla pigrizia, e anche il pensare che si può ottenere tutto e subito senza adeguate competenze e i giusti sacrifici per conquistarle.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Innanzitutto il 150 anniversario pirandelliano, che mi vede in giro per il mondo insieme al Pirandello Stable Festival, sono già stato a Pechino, adesso vado a Varsavia, e poi con altre istituzioni a Stoccarda; attendo di partecipare alla Premiere di Arritmia; farò degli spettacoli in giro, da Palermo a Vicenza, con Io siciliano sono, anzi di Naro, nonché attenderò alla messa in scena del mio ultimo testo teatrale Le ragioni del Fuco, tratto dal mio omonimo romanzo pubblicato da SCE, Palermo, con una nota compagnia palermitana; un paio di prossime pubblicazioni letterarie: sia con SCE, con cui spero di continuare una proficua collaborazione, sia con Medinova, del mio amico Antonio Liotta, Il Medicartista: del corpo la cura e le parole – a proposito, vedi? – dove in un excursus narrativo delineo questa figura e le esperienze che ne derivano. C’è anche un film italo-americano all’orizzonte, sia come attore sia eventualmente come autore di parte della colonna sonora attraverso una canzone mia. Ma le solite, idiote scaramanzie non mi fanno esporre più di tanto. Poi avrei in programma di andare in Congo – così come sono stato in Kenia a formare educatori che si occupano di bambini di strada che sniffano colla – ma la situazione attuale sembra sconsigliarlo, ma io non demordo. Inoltre inizierò un itinerario amministrativo spero proficuo e formativo con la Fondazione Pirandello.