Pino Sciumé
QUEST’ANNO CADE IL SEGRETO DI STATO SULLA STRAGE DI PORTELLA DELLA GINESTRA E SULLA MORTE DI SALVATORE GIULIANO: SAPREMO LA VERITA?
Il 1° maggio 1947 si consumava a Portella della Ginestra la prima strage dell’allora giovane Repubblica Italiana, nata dal referendum del 2 giugno 1946. Undici morti e 27 feriti. Un’atroce carneficina perpetrata sul pianoro incastonato tra le due alture rocciose, il Pelavet (o Pizzuta) e il Kumeta in cui si erano radunati circa tremila persone per celebrare la festa dei lavoratori.
I colpi assassini non risparmiarono donne e bambini. In pochi minuti la tragedia della morte mise in ginocchio tre piccoli paesi confinanti rimasti per sempre accomunati da un dolore eterno: Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello. Doveva essere un giorno di festa. A parlare dal podio di Barbato sarebbe stato l’on. Girolamo Li Causi, capo indiscusso e carismatico del Partito Comunista in Sicilia e alto esponente a livello nazionale, eletto deputato all’Assemblea Costituente. Appena dieci giorni prima il Blocco del Popolo aveva vinto le prime elezioni regionali portando a Sala d’Ercole 29 deputati contro i 20 della Democrazia Cristiana.
Ma Li Causi non si mosse da Palermo, avvertito (si dice) che sarebbe stato per lui prudente non recarsi a Portella. Al suo posto fu designato un ancora giovane sindacalista, lo storico Francesco Renda che però ebbe la “sfortuna” di restare in panne con la sua moto, riuscendo a raggiungere il luogo appena dopo la fine degli spari. Comunque riuscì a vedere per terra i corpi delle vittime, ma non risulta però essere stato interrogato dalle forze dell’ordine. Verso le dieci del mattino, il segretario del partito socialista di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, di professione calzolaio, decise di prendere la parola. D’improvviso la gente cominciò a guardare in alto, sopra le teste. Strani fischi di pallottole, scambiati per colpi di mortaretti. Qualche secondo di pausa, poi si scatenò l’inferno. Decine, centinaia di spari provenienti da varie direzioni.
Le bandiere rosse sembrarono ammainarsi, molti si afflosciarono al suolo, sangue dappertutto, grida disperate, un fuggi fuggi generale, abbattuti anche i cavalli. Lunghi, interminabili minuti di terrore. Poi il silenzio. Il ministro siciliano degli Interni Mario Scelba dichiarò in parlamento che si trattò di una strage “comune” compiuta dai volgari banditi al soldo di Salvatore Giuliano. Ma le opposizioni insorsero: definirono i fatti di Portella una strage di stato, adombrando la terribile accusa che lo stesso ministro avrebbe in qualche modo favorito l’evento per addossare la colpa all’imprendibile “re di Montelepre” (espressione ripresa qualche anno fa dallo scrittore Angelo Vecchio che ne fece il titolo di un suo libro su Giuliano).
Di seguito si riportano le considerazioni del Prof. Giuseppe Casarrubea, uno dei maggiori storici conoscitori di quegli anni e presidente dell’associazione “Non solo Portella”. 1) Furono gli esperti della seconda Corte di Appello di Roma, a dimostrare che i conti non tornavano. Essi infatti, calcolarono il numero dei banditi e delle armi che avevano sparato a Portella e misero in risalto che sul versante di Giuliano furono esplosi circa 510 colpi di arma da fuoco, mentre sul terreno di Portella, dopo la strage furono rinvenuti oltre 1100 bossoli. Legittima la domanda: – Da dove partirono gli altri 600 colpi? E da chi furono sparati? 2) A queste domande nessuno poté rispondere perché non furono effettuate le perizie autoptiche sui corpi dei caduti. Tuttavia, dalle perizie necroscopiche risultava che i colpi mortali su alcuni di essi erano dovuti a ordigni esplodenti. Li Causi parlò di corpi lacerati. Non si trattò solo di proiettili che restarono conficcati nel terreno ma anche di schegge di granata che al contrario sollevavano zolle di notevole dimensione.
In seguito gli esperti ammisero la scarsa efficacia degli spari provenienti dal Pelavet (dov’era appostato Giuliano) col fatto che essendo il tiro inclinato e a quasi 400 metri di distanza, questa perde di efficacia. Gli spari che provocarono i morti si riferivano a “tiri radenti” cioè più vicini e in linea orizzontale alle vittime. Questo dato è confermato dalla dinamica dell’eccidio: i primi colpi furono sparati in aria tanto che molti testimoni dichiararono di avere sentito fischiare le pallottole al di sopra delle loro teste e, in un primo momento, scambiarono gli spari per mortaretti. Con le seconde raffiche caddero i cavalli che facevano da siepe come negli accampamenti degli indiani. Solo con le ultime si ebbero i morti e i feriti. Chi avesse sparato dall’alto sulla folla non avrebbe avuto motivo alcuno di abbattere gli animali, avendo, per altro, un’ampia visuale della valle. Francesco La Puma, ferito superstite, porta ancora oggi in corpo un proiettile di mitra parabellum cal. 9, che non era l’arma in dotazione agli uomini di Giuliano, la mitragliatrice Breda, cal. 6,5). I punti di fuoco erano quattro e gli unici che potevano sparare a filo radente erano gli uomini di Salvatore Ferreri e i sei mafiosi di San Giuseppe Iato, come dichiarato dallo stesso Li Causi. Le granate sparate da uomini della decima Mas, sul lato opposto, servivano per creare panico. Sapremo la Verità? I due faldoni ancora secretati saranno veramente aperti? E cosa conterranno che ancora non conosciamo?
Abbiamo contattato telefonicamente il nipote di Giuliano, Giuseppe Sciortino, figlio della sorella Mariannina. “E’ già in fase avanzata – ci ha risposto – un corposo documentario cinematografico della durata di circa tre ore contenente documenti, interviste ad alte personalità, esperti, storici, criminologi, da me raccolti negli ultimi 40 anni. Se lo Stato vorrà aprire i propri archivi che ben venga, ma le posso assicurare che il documentario che uscirà prima in America e poi in Italia entro la fine di Giugno prossimo, consegnerà alla Storia la vera figura di mio zio Salvatore Giuliano, non bandito, ma eroe della terra di Sicilia. Successivamente realizzeremo il sogno mio e di mia madre con il film Il Leone di Montelepre”. Noi aspettiamo.