Nelle oltre cento pagine, scritte con uno stile asciutto (quasi non avesse voluto esprimere opinioni o sue personali e legittime considerazioni) Sparacino racconta che a Dora-Mittelbau i tunnel per fabbricare i missili V1 e V2 vennero all’inizio scavati e realizzati quasi senza mezzi. Tutto il lavoro veniva compiuto a mani nude, in condizioni che solo lontanamente noi oggi possiamo immaginare. Le gallerie erano umide e fredde, i rumori assordanti e l’aria irrespirabile. Inoltre l’autore narra le vessazioni subite, gli oltraggi vissuti in prima persona e il terrore suscitato dalle SS: in un lager, così come testimoniato, scritto e ricordato da altri deportati-scrittori, la vita e la morte si guardavano in faccia ogni secondo, ogni minuto, ogni ora del giorno e tutto dipendeva da scelte e decisioni (spesso veri e propri capricci) che venivano prese sul momento dal nazista di turno, si moriva per un si o per un no.
Oltre alle memorie che hanno permesso agli storici e ai tanti interessati di poter conoscere le condizioni di “vita” e il funzionamento di un lager praticamente sconosciuto, a Calogero Sparacino va anche riconosciuto un altro rilevante merito, ovvero aver realizzato nella sua casa di Ribera (sita in viale Crispi ai civici 35 e 37), all’interno del grande salone, quello che ormai è ufficialmente conosciuto come il “Museo della deportazione”. Visitato già da numerose scolaresche, è caratterizzato dalla presenza di un modello in scala, realizzato in legno dallo stesso Sparacino, che riproduce fedelmente il campo di Dora-Mittelbau, con tanto di camere a gas e forni crematori, di cui tristemente il lager era dotato. Il museo è provvisto inoltre di una raccolta di innumerevoli documenti, testimonianze, foto e cimeli, frutto di anni di collaborazione e costanti contatti con i commilitoni ancora viventi o con i loro familiari.
Ma a onor del vero, bisogna registrare un dato negativo nella vicenda del museo: la chiusura dello stesso subito dopo la morte di Calogero Sparacino, avvenuta nel gennaio del 2006 a quasi novant’anni (non prima però d’aver lasciato un secondo libro di memorie, quasi completo e pronto per una sua futura e auspicabile pubblicazione). Tuttavia le precise indicazioni lasciate dal padre Calogero ai due figli, Giovanni ed Emanuele, fanno ben sperare nella riapertura dell’importante luogo riberese della memoria della Shoah. I due eredi, infatti, hanno chiaramente manifestato la volontà di portare avanti il progetto del padre scomparso, preservando la memoria e il ricordo della sua affascinante figura di uomo, la cui vita ha vinto sulla morte, quasi a conferma del monito contenuto nelle parole di Primo Levi: è avvenuto, quindi può accadere di nuovo, questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
Antonio Fragapane