Giuseppe Maurizio Piscopo
Antonio Patti nasce a Favara nel 1950. Patologo clinico con due specializzazioni, una in Igiene e Medicina Preventiva, conseguita a Palermo e l’altra in Ematologia, a Catania. Per anni redattore capo del trimestrale Progetto salute e di Prospettive mediche, rivista dell’Ordine dei Medici di Agrigento. Componente delle redazioni di Ades e di Fasis, impegnato da oltre mezzo secolo nella politica e promozione culturali, autore di Alberto e la città (edizioni Tracce), Il nostro cielo racchiuso (edizioni Ades), Il povero pero, quasi un apologo (edizioni Medinova), Specchio d’Aloe, l’Aloe tra mito e storia (Nuova Ipsas Editore), ha pubblicato racconti e poesie in libri collettivi, ha scritto recensioni, prefazioni e postfazioni, curato l’editing di numerose pubblicazioni e la presentazione di Mostre d’arte e di libri.
Premio Adas per la promozione della donazione del sangue, in occasione del suo primo decennale, nel 1993; nel 1996 premio AIAS Sicilia per i risultati conseguiti nella coltivazione e nella promozione delle piante succulente; nel 2008 premio Pergamena Pirandello; dal 2010 Cittadino benemerito di Favara; nel 2015 Premio Pippo Montalbano; nel 2016 Targa Speciale dell’Ordine dei Medici di Agrigento.
Come e quando nasce la tua passione la Scrittura e per il Teatro?
Fin da bambino. Ho imparato con estrema facilità a leggere. Stranamente con gli occhi e non ad alta voce come normalmente avviene e questo per una mia forma di timidezza, che ho vinto, quasi del tutto, soltanto in età adulta.
Leggevo di tutto. Alla fine delle elementari avevano buttato i Mulè molti vecchi libri e riviste di medicina appartenuti al dottor Antonino Mulè, a cui è intitolato il cortile.
Ebbene io li raccoglievo e li leggevo avidamente. Ovviamente ci capivo pochissimo, ma la curiosità era tantissima e non demordevo, ma queste letture selvagge sicuramente sono servite a convincermi ad intraprendere la carriera medica.
Difficoltà enormi nella scrittura perché, allora non lo sapevo, ero mancino e venivo obbligato a scrivere con la destra e non ci riuscivo. Quanti pianti e quante ribellioni. Già coi capelli bianchi e la mia vecchia maestra Lia Lentini, a cui ero molto affezionato, a ricordarmi ridendo che ero nato ribelle: la verità era molto più semplice: in quegli anni gli insegnanti erano “obbligati” culturalmente a “correggere” noi mancini.
Ho conosciuto in seconda o terza elementare il giornalino “La via migliore”, distribuito gratuitamente agli scolari delle elementari per promuovere il risparmio bancario. Il titolo mi era talmente piaciuto da spingermi, quando abbiamo creato, su mio input, una “Compagnia teatrale” ad affibiare ad essa questo nome. Il tetto a botte, in fondo al cortile, una specie di abside, era il nostro teatrino, di cui ero capocomico, impresario, bigliettaio, bambino di fatica, ecc.
Da quella compagnia sono venuti fuori però due veri attori, i fratelli Maria Carmela e Lillo Pecoraro, che tanto hanno fatto e continuano a fare per il Teatro con la T maiuscola. Gli altri ci siamo fermati per strada.
Come eri da bambino, ricordi il tuo primo giorno di scuola, il Maestro, i tuoi compagni, l’atmosfera di quel tempo a Favara?
Ero un bambino molto tranquillo e chiuso. I miei primi ricordi, molto vaghi, si riferiscono alla nostra casa di via San Vito, proprio di fronte al campanile della chiesa omonima. C’era un ballatoio di gesso davanti la casa, che condividevamo coi vicini. Poi ci siamo trasferiti, all’età di due anni scarsi, in via Lombardo, in una abitazione molto più spaziosa e con una piazzetta su più livelli antistante l’ingresso e con un grande cortile dalla parte del magazzino. Ovviamente erano gli spazi dove potevo dare libero sfogo alla mia fantasia di bambino. In questa piazzetta c’era un barbiere, Felice Grova, poi protagonista di un mio racconto confluito nel libro-CD Musica dai saloni.
Da lì mi veniva facile recarmi in giardino, dove passavo gran parte del mio tempo libero. Giocavo, ma anche apprendevo. Ho imparato a coltivare piante prima ancora che a leggere e a scrivere.
Ricordo sempre con nostalgia quella casa. Mio padre, tra i tanti mestieri, era anche cineproiezionista, dapprima al Cinema Parello, nella discesa del Castello, attiguo alla chiesa del Rosario. In questo cinema si proiettavano film muti. Di questo locale non ho memoria diretta. Poi al Supercinema. Papà portava a casa spezzoni di pellicola e aveva costruito per nostro diletto una scatola magica dove proiettare i vari fotogrammi capovolti.
Noi bambini ci divertivamo un mondo a proiettarli e a costruire storie con quelle immagini. Quando ho poi visto Nuovo Cinema Paradiso ho rivissuto ricordi della mia infanzia e di quella dei miei fratelli più vicini per età: la sala di proiezione per noi non aveva segreti: spesso vedevamo i film dai buchi di questa cabina.
Ero un tipo molto silenzioso allora. Poi col tempo ho recuperato abbondantemente.
Primo giorno di scuola, accompagnato da mio fratello Enzo, che ripeterà questo rito col mio primo giorno di ginnasio ad Agrigento.
La scuola era quella vecchia della Guardia. con una lunga scala su più piani e con la classe in fondo al lungo corridoio dall’alta volta a botte. Da incubi e, infatti, mi misi subito a piangere come tanti altri bambini.
Dall’indomani ci sono ritornato da solo. Facevo la strada interna tagliando dall’angolo della piazza Carmine, ora Garibaldi, contornando vicolo Luna e altri due cortili.
Dalla finestra di uno di questi cortili una mattina mi sono sentito bagnare perché avevano buttato l’acqua sporca dalla finestra. Al mio pianto sono scesi subito ad asciugarmi e a chiedermi scusa.
Grande cortile interno e uno stanzone adibito a mensa scolastica dove ora c’è un negozio di ferramenta. Da lì si vedeva la collina del Saraceno e il monte Caltafaraci. Spesso mi perdevo a guardare gli alberi delle campagne vicine. Sempre attratto dal verde.
Ricordo che una volta abbiamo marinato la scuola in una splendida giornata di primavera: dove ora c’è via Empedocle ci stavano delle minuscole piante dagli strani fiori verdi e gialli, che assomigliavano a degli insetti. Stetti tutto il tempo ad osservarli mentre i miei compagni giocavano. Poi ho scoperto che si trattava di piccole orchidee selvatiche del genere Ophrys.
Atmosfera sicuramente meno convulsa di oggi. C’erano poche macchine allora. Figurarsi che uno dei segni di risposta positiva di san Giorgio, alla richiesta di una grazia, era proprio il rumore del passaggio di una macchina! “San Giorgiu cavaleri, beddru a cavaddru e beddru all’appedi, pi la vostra santità facitimi sta grazia pi carità” e seguivano i vari segni, tra cui il rombo di un motore. Oggi san Giorgio dovrebbe cambiare segno.
In piazza Cavour (nel frattempo ci eravamo trasferiti in via Vittorio Emanuele di fronte al Caffè Amico, poi Patti; e sullo stesso pianerottolo dove abitava padre Seggio, barbaramente ucciso alcuni anni dopo, che ricordo con l’affetto di nipote). C’erano quattro enormi aiuole che un giardiniere sordomuto coltivava a zinnie, le più belle al mondo; uno spettacolo di fiori e di farfalle. Ne era gelosissimo e guai ad avvicinarsi. Scappava sempre qualche scappellotto. Mai riviste in vita mia zinnie così belle; pianta povera, ma dalle esigenze di una regina capricciosa. Lui ci riusciva come nessuno mai.
Compagni di scuola elementare: con molti siamo ancora in contatto ed amici. Tempo fa abbiamo fatto un raduno a distanza di mezzo secolo. Avevamo invitato anche il nostro amatissimo insegnante e Maestro, Michele Parlato, a cui abbiamo consegnato una targa ricordo con la scritta “gli alunni di ieri, gli uomini di oggi”, che lo ha commosso fino al punto da non essere stato più in grado di leggere i suoi appunti.
Sicuramente eravamo tutti molto più poveri, ma eravamo più spensierati.
Ti ho conosciuto da bambino in un angolo della piazza Cavour mentre preparavi uno spettacolo teatrale, ricordi il titolo del tuo primo lavoro?
Lo spettacolo era “La via migliore”, come il giornalino che aveva ispirato il nome alla “compagnia”. Ognuno di noi faceva quello che riusciva a fare meglio, una specie di happening. Senza saperlo facevamo già avanguardia!
Il tuo rapporto con i fiori nasce da lontano. Se un uomo al primo appuntamento si presenta con tre tulipani la donna ha meno paura di essere aggredita?
Il mio rapporto con i fiori risale alla mia infanzia. Addirittura nasco in mezzo ai fiori, essendo i miei genitori fiorai. Si dice in famiglia che la mia prima parola pronunciata sia stata calla perché ero affascinato dalla forma di questo fiore, che in realtà è un’infiorescenza. Oggi si chiama Zantedeschia: sicuramente con un nome simile avrei fatto prima a chiamare mamma o papà.
Mi chiedi dei tulipani, che restano tra i miei fiori preferiti. Avevamo un costone tutto a tulipani, proprio quelli dei quadri fiamminghi; io andavo matto per i tulipani Pappagallo e, per la forma perfetta, per i Triumph, specialmente quelli screziati e fiammeggianti.
Tulipani. Sono fiori che non appassiscono: si staccano con eleganza i tepali, planando come se facessero eleganti passi di danza, ad uno ad uno, dalla corolla. Tepali e non petali, ma la spiegazione è alquanto complessa e la tralascio.
Ricordo che i tulipani non sono olandesi, ma turchi: oggi odiamo il mondo arabo, dimenticando che tante cose belle e buone ci provengono proprio da lì: il riso, lo zucchero, gli agrumi, la cassata siciliana, la caponata e la cucina in agrodolce, le arancine; forse anche gli stessi spaghetti! e tutta l’agricoltura tradizionale. Figurati che tutti i termini siciliani, che si riferiscono all’agricoltura, sono di origine araba così come i toponimi di molti nostri paesi, che hanno rivitalizzato o fondato. Molta arte, anche cristiana, ha subito l’influenza araba. La Sicilia, la terra senza cui non si può concepire un viaggio in Italia, secondo Goethe, è così preziosa anche per merito loro: pensa alla Zisa, la chiesa Martorana, San Giovanni degli Eremiti o dei Lebbrosi o la Cappella Palatina o al nostro Castello di Favara.
Gli uomini di oggi dicono di amare le donne e ne accoppano due alla settimana, perché succede tutto questo?
È un momento terribile per tutti e per la donna in particolare. Sono venuti meno tutti i canoni su cui si reggeva il vecchio ordine sociale e culturale; rapporto uomo/donna compreso.
La causa di tanta violenza è da collegare molto probabilmente alla voglia di pari dignità e parità di ruoli tra donna e uomo. Il vero genere debole è l’uomo, che si reggeva in piedi con l’ausilio di una serie di protesi giuridiche, culturali e sociali. Venute meno si scopre tutta la sua fragilità e di conseguenza diventa aggressivo, se impreparato a questo epocale cambio nei rapporti di coppia. Ovviamente una persona, indipendentemente dal genere a cui appartiene, non va toccata nemmeno con un fiore.
Forse converrebbe parlare di tepali, sepali e petali. Meno complicato come discorso.
Quali sono i segreti dei fiori?
I segreti dei fiori? Tantissimi! Non basterebbe una biblioteca. Mi accingo a scrivere un libro parlando dei fiori e delle strategie adottate dalle piante per assicurare la perpetuazione della specie. Il titolo è un endecasillabo: Perfide tecniche di seduzione. Meglio non anticipare, ma assicuro che è un mondo davvero strabiliante e sconvolgente. S’imparerebbe una verità sotto gli occhi di tutti e, quindi, invisibile ai più: sono esseri intelligenti quanto o forse più di noi. Da almeno trent’anni raccolgo dati su dati in proposito, spulciando un sacco di testi.
A un convegno su amore e fiore mi sono permesso di parlare di amore tra le piante: i fiori sono i loro organi sessuali. Mi immaginavo qualche mormorio, invece ho scoperto tanto stupore e dire che i fatti sono sotto gli occhi di tutti.
Ci sono orchidee che imitano le femmine di determinati insetti: il maschio cerca di accoppiarsi e trasferisce così il polline da un fiore all’altro anche a distanza di chilometri perché gli insetti vengono attratti dai finti ormoni sessuali prodotti dalla pianta!
Altri fiori imitano un pezzo di carne in putrefazione per convincere le mosche carnarie a depositarvi le larve, destinate poi a morire, ma nel frattempo mamma mosca ha trasportato altrove il prezioso polline. E tante altre tecniche, alcune davvero crudeli come questo infanticidio di moschettine neonate. Veramente un mondo che non finisce mai di stupire chi per passione, come me, passa il tempo a studiare tutti questi stratagemmi. Ne spunta sempre uno nuovo.
Si può comunicare con le piante?
Certamente! Loro comunicano parecchio con noi, ma siamo noi spesso a non capirle. Chi vive in sintonia con le piante sa come dialogare con loro (e non esse!) e ci si spalanca davanti un mondo fantastico e sempre ricco di nuove scoperte.
Hanno tanti modi per farsi capire. Un botanico ha ipotizzato che la capsaicina contenuta nei peperoncini sia un’esca lanciata alla specie umana per soggiogarla con la dipendenza chimica a questa sostanza e garantirne così la diffusione: oggi non c’è nazione al mondo che non abbia le sue particolari cultivar di peperoncini più o meno piccanti.
Ti senti più un medico o uno scrittore?
Mi sento medico e scrittore; in realtà mi sento medico, scrittore e tra non molto tempo scrittore e giardiniere tout court. Del medico la cosa che amo più di tutto è la sacralità del suo ruolo. Si possono commettere errori e ognuno di noi qualcuno lo commette, anche se ci stiamo molto attenti, ma mai dobbiamo tradire la sacralità dell’essere medico e, di conseguenza, il segreto professionale. Ciò che ci rende sacri è proprio questo segreto, che deve essere mantenuto sempre, anche a costo della propria vita.
Essere medici e, quindi, a contatto con la sofferenza porta il medico ad acquisire una sensibilità particolare, una pietas verso chi soffre, che aiuta molto nelle proprie tendenze artistiche e letterarie. La scelta di questo lavoro spesso dipende da questa sensibilità particolare.
Sono molti i medici infatti che scrivono, dipingono, compongono musica anche a livelli molto alti. Spesso questa frequentazione è un modo per scaricare le tensioni accumulate e per elaborare i lutti che ognuno di noi, prima o poi, è costretto a subire.
Che cosa stai scrivendo in questo momento?
Diversi progetti in cantiere. Favare, un quadro della Favara di fine anni Cinquanta e inizi anni Sessanta: si tratta di racconti separati e uniti allo stesso tempo per descrivere una Favara con tante sfaccettature diverse.
Una raccolta di piccoli saggi, Orfeo e altro, dove far confluire la mia grande passione per la Musica, rapportandola con la letteratura e le Arti visive; uno spazio particolarmente ampio e approfondito verrà dedicato soprattutto al mondo dell’Opera Lirica, che amo alla follia. Il titolo prende origine dalla disamina del mito di Orfeo ed Euridice nelle opere, nella letteratura e nelle arti visive e pure nel cinema.
In questo saggio dovranno confluire alcune riflessioni su delicati e “spinosi” aspetti religiosi; la figura di Giobbe, in particolare, alla luce di un’opera di Euripide.
Puoi commentare questa frase di uno scrittore russo: “La bellezza salverà il mondo”?
Dostoevskij è stato il mio autore preferito e quello che più di tutti mi ha formato, dato che l’ho letto quasi per intero durante i miei anni ginnasiali. Il suo messaggio è soprattutto di speranza, ma personalmente non sono così convinto che la bellezza da sola possa salvarci.
La bellezza per salvarci deve necessariamente avere una dimensione etica. Per Bellezza metto al primo posto l’Amore: Amore verso tutto il Creato, Amore per l’accoglienza, per la diversità e Amore verso le creature più deboli ed emarginate. Bellezza verso il Bello senza amore non ha senso e non è più Bellezza.
Anche hitler (minuscolo!) amava il Bello: era letteralmente innamorato di Arnold Böcklin, ma non per questo possiamo considerarlo un salvato o, peggio ancora, un salvatore del genere umano o di una sua parte.
Perché gli uomini del nostro tempo non riescono più a comunicare con le donne, non riescono a guardarle negli occhi?
Ma è così bello annegare nello sguardo di una donna! Non importa se bella o no. Ci si arricchisce a guardarle nei loro occhi. Il problema della non comunicabilità riguarda tutti e tutto. Paradossalmente viviamo nell’era della comunicazione di massa, ma non della comunicazione di anime. Restiamo isole staccate, vasi e visi non comunicanti. La comunicazione tra i due generi oggi è ancora più complicata perché sono saltati tutti i vecchi sistemi di comunicazione, che imbrigliavano ruoli ben definiti e, aggiungo, per fortuna. Sicuramente si troverà un nuovo modo. Speriamo che nasca avendo come elementi fondativi il rispetto e l’amore reciproci.
Qual è l’ultimo libro che hai letto e il libro che tutti dovremmo leggere?
Per ora leggo libri per necessità di “lavoro”, tra cui alcuni inediti, di cui sto curando editing e prefazione. Ultimamente riesco ad inserire pochi libri miei, soprattutto di saggistica, da leggere per mio esclusivo piacere o interesse.
Un libro che consiglio a tutti? Almeno due: Don Chisciotte di Cervantes e Moby Dyck di Melville, due volumacci molto corposi e complessi, ma che ognuno di noi dovrebbe leggere e nella loro stesura originale. Senza Cervantes non si capirebbe la narrativa moderna, Manzoni compreso, e con Melville recuperiamo la grande dimensione dei poemi classici in chiave moderna. Ma vanno letti parola per parola, senza fare i furbi saltando brani che ci sembrano fuori dal contesto o inutili ripetizioni; questo vale soprattutto per Melville. Sono i pilastri della nostra Letteratura mondiale.
Personalmente io parto, arrivo e ritorno sempre all’Odissea: è il MIO libro in assoluto, soprattutto nei momenti più bui, che prima o poi ognuno di noi affronta. Ne possiedo almeno dieci edizioni diverse e tutte quante fittamente lette e studiate. Mi avventuro a leggerne brani anche nella lingua originale.
Sempre in lingua originale leggo i classici latini e i trattati di botanica, che adoperavano il latino fino agli inizi del Novecento, soppiantato, purtroppo, poi dalle lingue nazionali. Molto amati i classici medievali, difficili però da reperire.
Qual è la tua idea del successo della Farm?
La FARM è una grossa realtà non soltanto favarese. Sono tra i primi ad aver intuito le potenzialità di aggregazione offerte dal Cortile dei Sette Cortili, il cortile Bentivegna, dove insiste la Farm. A suo tempo vi abbiamo allestito una mostra di pittura, sul centro storico, di mio fratello Enzo e le prime due edizioni del Premio Buttitta, che ormai ha raggiunto la maggiore età.
La Farm ha ora una fisionomia meno americaneggiante rispetto a qualche anno fa e la cosa sinceramente mi fa solo piacere. Sulle recenti polemiche tengo a precisare che bisogna governare il territorio tenendo conto di tanti fattori, ma mai d’imperio e con gli occhi soltanto alle carte come paraocchi, come era stato fatto nei confronti di Antonio Presti e della sua Fiumara d’Arte e ora con Andrea Bartoli e la sua Farm: alla lunga, per fortuna, vince il buonsenso. Se si avviasse prima il dialogo tra istituzioni e promotori d’Arte sarebbe meglio ancora. In un’isola segnata da interi quartieri abusivi non possiamo prendere di mira due opere d’arte! Sarebbe più kafkiano che pirandelliano.
Se tu fossi il sindaco di Favara quali provvedimenti prenderesti per l’ambiente e per il traffico?
Per fortuna non sono sindaco e nemmeno assessore. Oggi ogni sindaco, di qualsiasi schieramento, è destinato all’insuccesso perché i problemi sono enormi, complessi e senza più risorse economiche. Ancora non abbiamo la cultura dell’intervento disinteressato dei privati e i cittadini spesso non hanno rispetto delle pur minime norme civiche e di convivenza: troviamo sacchetti di spazzatura disseminati e seminati ovunque; tra non molto nasceranno foreste di munnizza a circondare le nostre cittadine un po’ come gli zecchini di Pinocchio.
Tu hai scritto del mondo dei barbieri e delle serenate, questo mondo è veramente tramontato?
Il mondo dei barbieri per come lo abbiamo vissuto noi è del tutto tramontato ed è un peccato. Una volta si andava dai barbieri anche per fare musica e per fare letteratura, anche se non Alta, con la lettura dei Beati Paoli o di altri romanzi popolari.
Nel rivitalizzare il centro storico di ogni città bisognerebbe portare avanti la politica di garantire l’esistenza delle botteghe artigiane, barberie comprese. Non solo come dato folklorico, di richiamo turistico, ma anche come laboratori e scuole di formazione per nuovi artigiani. Sono saperi che si perdono. Una gigantesca malattia di Alheimer che colpisce l’intera società. Una cultura materiale, che spesso si fa Cultura alta, non può e non deve morire. Molte pagine di letteratura senza queste presenze non sarebbero nate.
Un Don Giovanni senza la serenata di Mozart avrebbe senso? Sicuramente sarebbe risultata un’opera molto più povera.
Puoi esprimere un commento sul libro di Antonio Russello “La luna si mangia i morti” che Elio Vittorini ha preferito al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, perché questa scelta secondo te?
Bum! Qua entriamo in un campo minato. Vuole la leggenda che Vittorini avesse due libri inediti sulla scrivania: uno era La luna si mangia i morti di Antonio Russello e l’altro era Il Gattopardo. Quale scegliere visto che ne poteva far stampare uno soltanto? Secondo me ha fatto la scelta più saggia pubblicando il capolavoro letterario di Russello. La storia ovviamente gli ha dato torto.
Amo entrambi i due libri, ma, onestamente, amo molto di più il romanzo di Tomasi di Lampedusa. Se fossi stato al posto di Vittorini, pur consapevole della fortuna diversa toccata alle due opere, e pur amando Il Gattopardo, ripubblicherei senza remore La luna si mangia i morti perché è un libro perfetto, ben riuscito, con una scrittura moderna e anticipatrice; molto più coraggioso de Il Gattopardo, che è un libro non ancora del tutto rifinito e con dei blocchi narrativi che meritavano un maggiore riequilibrio e stilisticamente più classico. Ma stiamo parlando di due capolavori assoluti della letteratura italiana. Dispiace che non ci sia stato il meritato successo anche per Russello.
Ovviamente parlo da lettore e non da addetto ai lavori.
Come va con il Premio Buttitta, una edizione si organizza a Palermo ed una a Favara, perché?
Il Premio Buttitta nasce a Favara a pochi mesi dalla morte del poeta di Bagheria, avvenuta nel 1997. Un modo simpatico e coinvolgente per ricordarlo. Favara ha due istituzioni dedicate a personaggi di Bagheria: il Centro culturale Renato Guttuso e il Premio Ignazio Buttitta, sua creatura. Francamente all’inizio non pensavamo che saremmo arrivati a venti edizioni consecutive, senza saltare un Otto Dicembre!
Poi abbiamo saputo che la Fondazione Buttitta aveva istituito nel 2006 questo premio intitolato a lui. Che fare? Cambiare poeta? Abolire il nostro Premio, nato per primo? Due son sempre meglio di uno ci siamo detti e abbiamo continuato. Poi si tratta di premi completamente diversi per tipologia e finalità. Il nostro è diretto a promuovere la Cultura siciliana e a premiare quanti vi si dedicano con passione e bravura; altro scopo è quello di passare il testimone alle nuove generazioni, ecco perché coinvolgiamo le scuole di ogni ordine e grado non soltanto della nostra realtà provinciale.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Col primo gennaio vado in pensione, ma ho intenzione di iniziare due nuove attività: mezza giornata a fare l’intellettuale, impegnato nella lettura e nella scrittura e mezza giornata a lavorare come giardiniere: cultura e coltura, due mondi che si devono necessariamente fondere in agriCULTURA ed io la felice cavia.