Elezioni provinciali
C’è qualcosa di emblematico – e per certi versi paradossale – nelle elezioni provinciali che si stanno celebrando in Sicilia in questi giorni. Un passaggio formale, previsto dall’ordinamento, ma che sembra consumarsi nel silenzio generale, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, e in una distanza crescente tra la politica e il territorio.
Si vota, ma quasi nessuno lo sa. Si eleggono i Presidenti dei Liberi Consorzi e i Consigli Provinciali, ma non sono i cittadini a farlo: il diritto di voto, in questa tornata, è riservato ai sindaci e ai consiglieri comunali in carica. È la logica del “secondo livello”, retaggio di una riforma – quella della legge Delrio del 2014 – che ha cercato di superare le Province senza realmente abolirle, svuotandole di funzioni e visibilità, ma lasciandole formalmente in vita.
Il ritorno della politica, ma senza il popolo
Eppure, al netto di tutte le perplessità sul meccanismo elettorale, il dato politico è rilevante: dopo anni di gestione commissariale, la governance degli enti intermedi torna ad essere affidata a rappresentanti del territorio. Non più tecnici nominati, ma amministratori eletti – seppur indirettamente – che conoscono le dinamiche locali e hanno spesso maturato esperienze nei propri Comuni.
Ed è proprio questa la nota forse più confortante dell’intera vicenda: per una volta, vengono valorizzati gli amministratori locali e le loro competenze. Persone che ogni giorno affrontano con pragmatismo i problemi dei cittadini, che conoscono la macchina amministrativa, che si misurano con bilanci, emergenze, e scelte difficili. È un buon segnale, in netta controtendenza rispetto alla prassi – ormai troppo frequente – di designare o eleggere figure che non hanno mai amministrato nemmeno un condominio o rappresentato una classe di scuola elementare. Il ritorno al merito dell’esperienza, almeno in questo, rappresenta un punto fermo da cui ripartire.
Il caso Agrigento: coalizioni in frantumi e strategie trasversali
Se però allarghiamo lo sguardo alle dinamiche interne, ciò che sta accadendo ad Agrigento merita una riflessione più profonda. Le tradizionali coalizioni di centrodestra e centrosinistra sembrano essersi sgretolate. I confini ideologici appaiono sfocati, le appartenenze superate da logiche di posizionamento personale o da accordi trasversali che sfuggono alle consuete griglie interpretative.
Non è solo una frammentazione, è una vera e propria liquefazione del quadro politico locale. In questo scenario, la competizione non sembra orientata da visioni programmatiche, ma da calcoli numerici, intese parallele, dinamiche che ricordano più un congresso di partito che una competizione elettorale in grado di produrre visione per il territorio.
Un’elezione che si consuma nel silenzio
Ma il dato più sconcertante resta il silenzio. Quasi nessuno tra i cittadini è realmente consapevole che si stia votando. Nessuna campagna di comunicazione istituzionale, nessun coinvolgimento dell’opinione pubblica, nessun dibattito reale. È come se si trattasse di una partita a porte chiuse, giocata tra pochi addetti ai lavori, lontana da occhi indiscreti.
E questo è forse l’aspetto più grave: la distanza crescente tra la politica e le comunità. Mentre i territori chiedono risposte su infrastrutture, mobilità, servizi sociali e scolastici, la politica si chiude in stanze sempre più insonorizzate, dove prevalgono logiche autoreferenziali, alleanze temporanee e accordi di vertice.
Giochi di potere e di palazzo, mentre i territori attendono risposte
Non è un’esagerazione parlare, con garbo ma con chiarezza, di giochi di potere e di palazzo. Quello che si sta osservando è l’esercizio di una politica che ha smarrito il contatto con le piazze, con le strade, con i bisogni quotidiani dei cittadini. Una politica che fatica a generare partecipazione, consenso, entusiasmo. E che appare, giorno dopo giorno, sempre più distante.
Ecco allora che questa tornata elettorale, pur così poco percepita, diventa un banco di prova. Un esperimento – forse l’ennesimo – per testare se le istituzioni intermedie possono ancora rappresentare un livello utile di governo del territorio, o se invece rischiano di trasformarsi in meri strumenti di gestione del potere, sganciati da qualsiasi legittimazione popolare autentica.
Riconnettere politica e territorio: una sfida non più rinviabile
Il nodo vero è questo: riconnettere la politica ai territori. Non solo con buone leggi e nuovi assetti istituzionali, ma con un cambio di paradigma culturale. Servono amministratori capaci, certo, ma anche visione, progettualità, trasparenza, comunicazione. Serve che le istituzioni tornino ad essere luoghi vivi, attraversati da domande vere e non da giochi autoreferenziali.
Se questo passaggio elettorale potrà servire, anche solo in parte, a ridare dignità alla rappresentanza locale, sarà un risultato importante. Ma se dovesse ridursi all’ennesimo regolamento di conti interno tra correnti, sarà l’ulteriore prova di una politica sempre più chiusa su sé stessa e sempre meno all’altezza delle attese del proprio popolo.
Perché, in fondo, i territori chiedono una sola cosa: che chi decide per loro abbia la capacità di ascoltarli, di comprenderli, e soprattutto di rappresentarli.